mercoledì 3 ottobre 2012

Partire. Restare.

Nel vuoto totale di prospettive lavorative in cui sto navigando ormai da 7 mesi (di già! Fra poco non potrò fregiarmi più nemmeno del titolo di neolaureata, andiamo bene), la frase che mi è stata rivolta più spesso, accompagnata da un'alzata di spalle, è stata: "Voi ggiovani dovete emigrare, andare all'estero, non avete altre alternative...". Ora, tutto molto condivisibile: all'estero ci si apre a nuove esperienze, nella situazione attuale si hanno effettivamente più possibilità e via dicendo. Perfetto, ragionamento ineccepibile.
Ma.
C'è un ma. Questa frase è quasi sempre pronunciata come se fosse una soluzione, una medicina. E se tu la medicina non la vuoi prendere, bè, allora non hai più il diritto di lamentarti. Vai all'estero, allora, inizia ad  equivalere a Sei voluta rimanere?! E allora te la sei cercata! E questo non mi sta bene, per niente.
Come se decidere di restare fosse una resa, una decisione codarda, una mancanza di coraggio. Quanti occhi al cielo, quanti sospiri mi sto sorbendo per questo... Soprattutto dai miei coetanei, che poi puntualmente restano qui, come me. Mandano cv all'estero o al Nord, ma poi quando vengono convocati per un colloquio non vanno: Perché devo fare un viaggio così lungo se non ho la certezza di ottenere qualcosa? E allora non lo inviare proprio, il cv.

Io ho scelto di restare. Attenzione: non ho scelto di non partire, ho scelto di restare. Una scelta in positivo. Ho capito che quello che ho qui, per me, ha più valore di opportunità lavorative migliori. E vengo vista come una che si è arresa... No. Come se la carriera fosse il metro di tutto, la somma priorità. Per me è fondamentale, lotterò con tutta me stessa per costruirmene una e piangerò amaramente durante gli inevitabili fallimenti... Ma ho capito che rinunciare a costruirmi una famiglia con chi amo sarebbe stato ben più grave, per me: un'autentica condanna all'infelicità. E perché scegliere qualcosa che mi farebbe soffrire tanto? Per rispondere alle aspettative dei miei, dei professori, degli amici...? Per diventare anch'io un cervello in fuga, che fa tanto intellettuale?
Io non voglio essere infelice. Ho capito cosa mi renderebbe tale e allora lo evito. Stop. Eppure sembra così difficile da far capire: come se gli affetti valessero meno del lavoro, o comunque non dovessero rientrare fra i punti cardine di una brillante neolaureata. Forse per qualcun altro potrà essere così - e chi sono io per sindacare? - ma questa è la mia storia: sono sempre stata la prima della classe, la ragazzina piena di ambizioni e sogni nel cassetto. Poi mi sono innamorata. Già, che cosa disdicevole. E ho capito che voglio tutt'e due le cose. Le voglio entrambe, le merito entrambe. E se per avere tutto questo dovrò rinunciare all'autostrada - che pure avrei potuto imboccare - e inoltrarmi su un sentiero di terra battuta, vorrà dire che lo farò.

Ma non venite a dirmi che non ho il diritto di lamentarmi, se in Italia i sentieri sono pieni di insidie. E smettetela di fare spallucce.
Perché io non mi sono arresa.

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